giovedì 27 febbraio 2014

Blue Jasmine [Film]

Il commento di oggi sicuramente sarà molto breve perché Blue Jasmine l'ho visto più per l'interpretazione di Cate Blanchett che per il resto, visto che non è candidato come miglior film.




Un'altra storia, un'altra donna.
Jasmine, il cui ambiente naturale sono Park Avenue, Martha's Vineyard e l'alta società, da un giorno all'altro si ritrova a dover affrontare una vita troppo "umile" per i suoi standard e un esaurimento nervoso causato dal tracollo finanziario e la scoperta che il marito, oltre ad essere un truffatore, era anche un adultero seriale.
L'unica strada che ha da percorrere è andare a stare a San Francisco, dalla sorella adottiva Ginger (Sally Hawkins), ma anche qui le cose non vanno meglio.

Il film in sé non mi ha entusiasmata più di tanto, a tratti mi metteva ansia e ogni tanto dovevo stopparlo.
Non so, c'è qualcosa che non mi convince.

Ho trovato l'interpretazione della Blanchett magistrale, infatti buona parte dell'ansia che mi è salita durante la visione del film mi veniva trasmessa proprio da lei.
E' riuscita a dare un certo spessore ad un personaggio che di base partirebbe cliché e superficiale.

Mi ha fatto molta tenerezza Ginger, che sembra fragile ma non lo è poi così tanto e soprattutto sa cosa vuole, senza troppe pretese ed ambizioni.

Mi sembra che, in fondo, la storia di Jasmine sia inconcludente, quasi a volerci dire che "il troppo stroppia" mentre, al contrario, quella di Ginger trova una sua conclusione, per usare un'altra frase fatta "chi si accontenta gode".

Un film schizofrenico, a tratti noioso, anche se ho apprezzato i flashback.

Insomma, un sì grande come una casa a Cate, ma un ni al complesso.

mercoledì 26 febbraio 2014

Philomena [Film]

Potrebbe partirmi il pippone anticlericale in questo commento, ma cercherò di contenermi, ma non garantisco nulla.

Parliamo di Philomena, un film delicato come un vetro soffiato.





Philomena Lee è irlandese ma soprattutto cattolica.
Philomena Lee commette un peccato tremendo: fa sesso al di fuori del matrimonio e, per di più, rimane incinta.
Philomena Lee è costretta a stare in un convento per quattro anni, per ripagare il suo "debito" con le suore che l'hanno "accolta" (e quasi uccisa durante il parto).
A Philomena Lee venne strappato suo figlio, senza neanche poterlo salutare.
Philomena Lee passa cinquant'anni della sua vita a cercare suo figlio, senza riuscirci, fin quando non trova sulla sua strada Martin Sixsmith, giornalista in crisi che cerca di rimettere insieme i cocci della sua carriera.

La storia di Philomena è dolorosa. In maniera diversa da quella di Solomon Northup (12 Anni Schiavo) o Rayon o Ron Woodroof (Dallas Buyers Club), ma non per questo meno straziante.
E' raccontata in maniera delicata, non so se dire leggera sia il termine esatto, visto che comunque gli occhi si sono riempiti di lacrime in certi punti.

Certo è che Judi Dench è strepitosa, le darei l'Oscar ad occhi chiusi (anche se io ho un debole per Meryl Streep e Osage County ancora devo vederlo). Ritrae la donna magistralmente, trasmette un'empatia pazzesca e, nonostante io alla fine stessi imprecando come uno scaricatore di porto contro suor Hildegarde non riuscivo al contempo a darle torto, è riuscita a trasmettermi l'enorme fede e forza d'animo che ha fatto andare avanti questa donna nonostante la sua tragedia personale.
E gente, non farmi sbraitare contro un religioso fervente è veramente un'impresa titanica.

Questo film mi ha fatta sorridere e mi ha fatta scendere la lacrimuccia, ho un giudizio totalmente positivo a riguardo, anche se credo che nelle categorie in cui è candidato ci siano dei concorrenti un po' più "forzuti".
Attrice protagonista a parte, si intende.

Vorrei tanto, ma proprio tanto dire due paroline sulle simpatiche suore, ma mi sono ripromessa di contenermi, altrimenti ci vuole un post solo per quello.
Carità cristiana e misericordia, un giorno mi racconteranno quanto siano veramente importanti per loro, SEMPRE e non solo quando conviene.
Forse è più importante mettere davanti il rancore e il livore: "Io ho fatto voto di castità" e dunque? Lei no.
Sarà una peccatrice, quello che vuoi ma Gesù Cristo mi sembra abbia insegnato ad amare tutti quanti allo stesso modo, peccatori o no. Non mi pare abbia mai allontanato la Maddalena, lui.
Ma d'altra parte sono decenni che non frequento catechismi e chiese, forse ho la memoria arrugginita e certe cose non me le ricordo o non le voglio capire.
Ma ripeto, tutto ciò non appanna l'ammirazione nei confronti di Philomena che ha avuto la forza di pronunciare due semplici parole ma di una potenza estrema: "La perdono".

Ps: fatemi dire un'ultima cosa, il poster, però, è proprio brutto.

martedì 25 febbraio 2014

12 Anni Schiavo [Film]

Dico solo una cosa per introdurre questo film, di solito "prendo appunti" quando guardo un film da commentare, più che altro mi segno delle parole chiave per ricordarmi quello che poi voglio scrivere perché non lo faccio immediatamente. Ebbene, con questo film non ci sono riuscita, mi ha talmente risucchiata nella storia che forse ho segnato una parola all'inizio e poi basta.
12 Anni Schiavo (12 Years a Slave) è stata una vera e propria mazzata nei denti.





Il film è tratto dalla storia personale di Solomon Northup, uomo libero di colore in un contesto storico assai difficile, prima della Guerra di Secessione Americana, un periodo in cui lo schiavismo era più forte che mai.
Solomon viene rapito a Washington per far di lui uno schiavo. Provate ad immaginare come va avanti.
La fortuna di Solomon è incappare il canadese Samuel Bass, che rappresenta il suo faro di speranza e che lo aiuta a tornare dalla sua famiglia.

Questo, come Dallas Buyers Club, è un film che mi mette in soggezione.
E' talmente bello, totalizzante, coinvolgente, duro che ho paura di scriverne. Qualsiasi commento, impressione, parere potrebbe risultare stupido e superfluo.

12 Anni Schiavo fa parte di quella categoria di film che io chiamo "fisici", perché mi prendono lo stomaco, l'intestino e quello che volete e me li ribaltano. Sento talmente tanto l'empatia con quello che sto vedendo che sto male.
Ci sono una manciata di scene parecchio crude, ma non per questo colpisce meno.
Non è necessario mostrare tutto per colpirti dritto in faccia, anzi sono del parere che certe volte sono le cose non dette chiaramente, ma dette bene che fanno più male.

Sono stata sulla corda per due ore e l'angoscia cresceva mano a mano che andava avanti il film e non nego che un paio di volte ho pensato di chiudere tutto perché stavo male. Poi nella parte finale sono scoppiata a piangere come una deficiente.
Questo il sunto dei miei sentimenti.

Inutile dire che il film è diretto più che bene, quando una pellicola sconvolge a determinati livelli è anche superfluo dirlo.

Il cast è strepitoso. D'altra parte per arrivare a certi livelli, non dev'esserci solo una buona struttura, puoi anche girare un bel film, ma se non hai delle ottime interpretazioni, è inutile starci a discutere.

Ottimo Chiwetel Ejiofor, interprete di Solomon/Pratt, quest'anno la corsa all'Oscar per Miglior Interprete Maschile è veramente dura, aspetto di vedere anche Wolf of Wall Street e Leo per decretare il mio preferito, anche se McConaughey al momento per me è comunque il primo della lista.
Al di là di questo, è riuscito a palesare in maniera magistrale la natura di Solomon, il suo contegno e la sua dignità, che nonostante le umiliazioni e i soprusi è riuscito a mantenere per tutto il suo periodo da schiavo.

Fassbender eccezionale, con quella faccia può fare lo stronzo quanto vuole. Però il mio vincitore dell'Oscar c'è già, si chiama Jared Leto senza se e senza ma.

La vera sfida secondo me è Lupita Nyong'o/Jennifer Lawrence.
Lo sanno anche i muri della mia venerazione per Jen Law e mi trovo tra due grossi fuochi, perché entrambe sono strepitose. I loro sono due personaggi che stanno lontano anni luce l'uno dall'altro e non sono assolutamente d'accordo con le motivazioni dei Social Justice Blogger che volevano Lupita vincitrice ai Golden Globes perché "Jennifer è solo una white privileged senza talento". A parte che senza talento lo dite a vostra madre, ma se mi aveste posto la questione su un discorso prettamente interpretativo, avrei potuto anche darvi ragione, ma porre la questione solo su un fatto di colore della pelle, per quanto mi riguarda, sminuite la straordinaria performance di Lupita. E' verissimo che Patsey è un personaggio dilaniato e devastato, ma non è questo il fattore determinante per vincere un premio. Il fattore è invece che Lupita ci fa toccare con mano la devastazione di Patsey, ce la sbatte in faccia.
Rosalyn in American Hustle è una casalinga annoiata e fuori di testa, ma non perché non subisce uno stupro significa che possa essere meno complesso o interpretato peggio.
Insomma, tutta questa filippica, non so neanche se sono riuscita a farvi capire come la penso, per dire che chiunque delle due vinca, sarò contenta. Anche se forse Lupita sarebbe una scelta più saggia (non venite a dirmi che non sono obiettiva).

Insomma, questo film è eccellente e predisponetevi bene psicologicamente prima di guardarlo, perché è un calcio nello stomaco, anche se la dignità di Solomon riesce comunque a mantenere un'aura di speranza per tutte e due le ore di storia.

lunedì 24 febbraio 2014

Nebraska [Film]

Altro giorno, altro film.
E' stato il turno di Nebraska, film che mi prende un po' in contropiede, con sentimenti contrastanti.





Come ho già accennato, non ho un'opinione netta su questo film.
Non posso dire che mi sia strapiaciuto ma neanche che l'abbia detestato.

La storia parla di un anziano pensionato, Woody, che abita in Montana ed è convinto di aver vinto un milione di dollari grazie ad una estrazione. Nessuno riesce a togliergli dalla testa l'idea che sia solo una mezza truffa, dunque dopo una serie di tentativi di recarsi a Lincoln, Nebraska a piedi, il figlio David, nonostante le ritrosie della madre Kate e del fratello Ross decide di accompagnarlo in auto, per assecondarlo.
Durante il viaggio padre e figlio si fermano ad Hawthorne, il vecchio paese natale di Woody. Dove ritrovano parenti, piccoli rancori e voglia di approfittare della fortuna altrui.
Alla fine Woody non ottiene il milione, ma sicuramente guadagna un nuovo rapporto con David.

Voglio innanzitutto fare un breve commento, positivo, sulle scelte registiche e fotografiche.
Il bianco e nero per quanto a me risulti sempre un po' di "plastica" nei film contemporanei (ma quello è un problema mio, me ne rendo conto, roba che risale a Schindler's List, tanto per dire) è una scelta parecchio azzeccata, dà atmosfera ed è coerente con il cuore della storia.
Un'altra cosa che mi è piaciuta tantissimo è stata la grande quantità di inquadrature panoramiche, in linea con il tema road movie. A tratti mi sembrava di vedere un documentario sulle terre semidimenticate del MidWest e dell'Ovest statunitensi.
Anche la musica è perfetta per il contesto.

Ho apprezzato molto l'interpretazione di Bruce Dern che è calato perfettamente nei panni dell'anziano Woody.
Un po' meno quella di Will Forte, il figlio David, che mi è sembrato monoespressivo per le quasi due ore di film, capisco che doveva fare la parte del figlio preoccupato, ma quel ghigno quasi disgustato mi ha messo l'angoscia.
Nota di merito a June Squibb nella parte dell'irritante moglie di Woody, Kate. Non nascondo che mi ha strappato svariati sorrisi, specie nella scena al cimitero.

Perché sentimenti contrastanti?
Perché in fondo io son fatta tutta a modo mio e nonostante per certi versi questo film mi abbia colpita nel profondo, perché certi istanti mi hanno fatta pensare ad un passato recentissimo molto doloroso e lo ritengo particolarmente toccante, ammetto che a tratti mi ha annoiata.
Il ritmo lento è necessario all'andamento di questo tipo di racconto, ma io sono tarata e mi ha un po' stancata.

Nebraska è un racconto pulito, lineare che parla di ricordi, di tempi che non ci sono più e di quanto la vita spesso ci scivoli via dalle dita e ci facciamo sfuggire il valore e il senso dei rapporti umani.

Posso dire che è un bel film, non lo nego, ma non è un film per me.

sabato 22 febbraio 2014

Dallas Buyers Club [Film]

Dopo lo stop di un paio di giorni, ho ripreso con la maratona Academy Awards.
Oggi mi sono dedicata ad un film proprio leggerino leggerino: Dallas Buyers Club.



Vi dirò, mi sento un po' (tanto) in soggezione a commentare questo film.
E' talmente bello e fatto bene che ho paura a scrivere un mucchio di stronzate.

La storia gira attorno alla vita di Ron Woodroof dopo che scopre di essere sieropositivo.
Sarebbe troppo riduttivo mettersi qui a scrivere il plot del film, perché al di là dei fatti, la pellicola dipinge l'evoluzione del suo protagonista che grazie alla malattia matura la consapevolezza del valore della vita e il rispetto verso chi considerava un tempo feccia, gli omosessuali.

Dallas Buyers Club è l'esempio lampante che il cinema può parlare di situazioni complesse, di storie crude con semplicità, senza ghirigori artistici, messaggi metaforici e montaggi visionari.
Il cinema di qualità non deve necessariamente essere complesso e poco immediato.
(Ogni riferimento a La Grande Bellezza è puramente casuale)

La sceneggiatura è solida, il linguaggio crudo ma diretto.
Ho apprezzato molto la fotografia, sembrava di stare realmente negli anni '80.
Anche certi dettagli di suono li ho trovati particolarmente curati, il respiro pesante di Ron, i fischi che sentiva poco prima di star male, li ho trovati particolarmente coinvolgenti.

Ma il macigno di questo film sono le interpretazioni di Matthew McConaughey e Jared Leto.
Una parola: mastodontici.
Jared si merita tutti i premi che ha vinto finora e l'Oscar dev'essere suo.
Aspetto di vedere Wolf of Wall Street per dare la mia preferenza tra McConaughey e Leo Di Caprio (anche se parteggio con quest'ultimo a prescindere, per le varie ruberie a cui è stato sottoposto nel corso degli anni).

Ron e Rayon sono due personaggi imponenti, nonostante la loro sconcertante magrezza.
Woodroof completa un percorso di maturità eccezionale, passa dall'essere un omofobo con l'apertura mentale di un tirannosauro vegetariano ad alzare le mani su uno dei suoi vecchi amici per aver insultato Rayon.

E' proprio questo il punto di forza di DBC: ci sbatte in faccia i pregiudizi che c'erano negli anni '80 riguardo l'AIDS, bollata come una malattia esclusivamente per frocetti tossici, quando invece poteva (e può) colpire anche il tipico macho etero texano.

Non solo Ron si rende conto che essere omosessuali non sia un crimine o un abominio, ma comprende che bisogna prendersi cura del proprio corpo. Abusare di sostanze come alcool e droga non ti rende più fico, semplicemente ti intossica.

[SPOILER]Ho trovato particolarmente struggenti due scene: Rayon, vestito da uomo e consapevole che non gli mancano molti giorni di vita, che va a cercare aiuto e in qualche modo conforto al padre.
E la reazione di Ron alla morte dell'amico. Senti proprio il cuore che ti viene strappato via dalla cassa toracica, scaraventato a terra, calpestato e fatto in mille pezzi.[SPOILER]

Un altro punto fondamentale del film è la lobby delle case farmaceutiche.
Dimostrando che a loro non frega più di tanto l'efficacia di un farmaco, bensì le loro entrate.
Nulla di nuovo sotto al sole, direte voi, ma vederlo in questi termini fa salire un po' tanto la bile.
Perché non solo non ti curano come si deve, ma ti impediscono di cercare delle alternative valide per proprio conto, quando vai ad intaccare i loro interessi.
Chi se ne frega se la gente crepa, l'importante è che io mi porti a casa la mia bella pagnotta profumata e così come le industrie di settore anche gli enti governativi che hanno a che fare con loro.
Questo porta Ron a girare mezzo mondo pur di curare lui e i malati come lui in modo decente.
Anche se non perde il suo cinismo di fondo.

Insomma, per farla breve e non continuare a scrivere amenità concludo che questo film è una vera perla e merita di essere visto senza se e senza ma.

mercoledì 12 febbraio 2014

American Hustle [Film]

E' arrivato il turno del terzo film della mia lista "Academy Awards", ovvero American Hustle.
Film che ha fatto poker di nomination tra gli attori e che ha collezionato in tutto ben dieci candidature.
Forse un tantino troppe.




Ammetto, ero partita con aspettative basse per questo film. Avevo letto più pareri negativi che positivi in merito.
Schifo non mi ha fatto, ma onestamente non mi spiego quale capolavoro possa essere da meritarsi addirittura nominations a due cifre.
Il cast se le merita tutte e quattro, per carità. Ma non vedo dove sia il capolavoro.

La storia di cui parla il film è una vicenda realmente accaduta, che gira intorno ad un'operazione dell'FBI anticorruzione a fine anni '70 che si avvale dell'aiuto di due truffatori di professione.

In alternativa, il film si può riassumere così: Bradley Cooper prova ad infilarlo per due ore e alla fine lo prende lui.
Questa mia versione del plot ha fatto furore sia su Facebook che su Twitter (faccio modestia di secondo nome).

Insomma, non so neanche cosa dire in merito.
American Hustle è uno di quei film che puoi vedere se hai due ore di tempo libero e non hai di meglio da fare.

Ho apprezzato in particolar modo la fotografia, che in qualche modo ricorda quei tempi che furono e ho molto molto apprezzato i costumi, particolarmente quelli femminili.

A+ alle interpretazioni, la mia adorata Jennifer Lawrence riesce a spiccare anche se si vede in tutto per un quarto d'ora. Tanto di cappello anche ad Amy Adams, Bale, Cooper e Renner.

Per il resto, nulla mi ha colpita in maniera tale da lasciare un commento articolato e sensato.
Tette della Adams, panza di Bale e bigodini di Cooper a parte.

Una commedia godibile con un grande cast, ma niente di così trascendentale. Neanche a livello negativo.
Certo, noi altre donne ci facciamo un po' la figura delle isteriche, ma vuoi o non vuoi sono proprio loro che, in un certo senso, risolvono la questione.

Dunque, il commento a sto giro è breve, esultate pure.

Next, please.


lunedì 10 febbraio 2014

La Grande Bellezza [Film]

Non nascondo di aver esultato nel cuore della notte, quando La Grande Bellezza ha vinto il Golden Globe.
Per ragioni puramente nazionalistiche, non avendolo ancora visto.
Dunque mi sembrava doveroso colmare questa lacuna, visto che il film è candidato anche alla statuetta cinematografica più prestigiosa l'Oscar.

Una volta visto, dico questo: se dovesse vincere, sarò contenta per le stesse ragioni, per patriottismo spiccio più che per il film in quanto tale.
Se ve lo state ancora chiedendo, no, non mi è piaciuto.




Sarò una mente semplice, sarà che con l'età mi sono rincoglionita, ma ho trovato la visione di questo film un vero e proprio strazio.

Ma procediamo per ordine.

Di cosa parla il film? Di Jep Gambardella, giornalista fu scrittore e dei giorni che seguono il suo 65mo compleanno.
Della sua vita che ruota tra noia, feste, mostre, performance e funerali.
In sintesi. Perché, in effetti, più che di trama qui ci sarebbe da farci una trattazione filosofica sul significato della vita e bla bla.

Parto subito da quello che mi è piaciuto, perché almeno una cosa riesco a salvarla di questo minestrone onirico e metafisico lungo due ore.
Roma. Ottima fotografia e un gran bell'omaggio alla Città Eterna.
D'altra parte la storia del protagonista si svolge nei salotti "bene" della nostra Capitale, dunque era inevitabile incappare nei migliori scorci della città, e Sorrentino ha fatto un buon lavoro, ricordandoci quanto Roma sia splendida nonostante lo stupro che subisce quotidianamente da amministrazioni, turisti e cittadini poco civili ogni giorno.

Chiamatemi pure mente semplice o ignorante.
A me i film messi in piedi così non mi piacciono. Sarà che ormai sono diventata una strenua attivista del partito "Cinema as Entertainment" (fatto coi tutti i crismi, ovviamente), sarà che son convinta che ci sono altre strade per far riflettere il pubblico su temi più o meno importanti, ma questa ricerca spasmodica di apparire elitari e al di sopra di tutto e di tutti a me non attira.
Questo continuo saltare da una cosa all'altra, almeno apparentemente, perché Jep, in fondo, non è che si sposti molto dal suo orticello da intellettuale. Riflettiamoci, il guizzo di novità nella sua vita lo porta una spogliarellista ultraquarantenne, segno palese di come la noia e il "ho già visto/ho già fatto tutto" siano un segno caratteristico della sua quotidianità.

Oltre alla noia è palese lo squallore in cui vivono Jep e i suoi "amici", tra l'altro cliché triti e ritriti di un certo ceto sociale: il marito cornificatore, la moglie cornuta, la radical chic, quella che ha il figlio problematico, eccetera eccetera eccetera.

Poi i dialoghi. Lessico ricercato, argomenti di discussione filosofici. Ma io ci credo poco che la gente, anche se di un certo status sociale parli in quel modo e di certe cose. Soprattutto sono poco credibili dopo essersi fatti svariate piste di cocaina e storditi di musica commerciale da quattro soldi. Per piacere.

L'ultimo pezzo, quello dov'è protagonista la suora, la "Santa" mi ha veramente inquietata. A parte lei in sé, senza denti in bocca (perdonatemi, fisime personali, non fateci caso).
Ma cosa vuole dirci Sorrentino? La fede è l'ultimo appiglio? Che dopo una vita di bagordi e frivolezze si può ritrovare un senso per la propria esistenza rivolgendosi a Dio o ad una qualche spritualità?
Mah, sarà. Ma questo è uno scetticismo mio personale che esula dal film. Poi magari non voleva dire neanche questo e io ho male interpretato tutta la sequenza.

Ho trovato tutto forzato, specie la recitazione, Servillo non mi è dispiaciuto in toto, ma i segmenti in cui ci sono le varie morti l'ho trovato poco credibile (?).
Su Verdone non dico nulla perché io lo adoro, mi prostro ai suoi piedi e quando fa particine così ridicole e inutili per me è come buttare tutto alle ortiche.

Una cosa che mi ha dato veramente, ma veramente fastidio, al di là di tutto il filosofeggiare è stato lo spudorato product placement.
Partendo dal vermouth, passando dai cappellini alla birra alla banca (che però almeno figura nei titoli di testa) o all'assurda inquadratura dello spremiagrumi, inserita solo ed esclusivamente per mostrarci il brand (di cui non ricordo neanche il nome, va là quanto è servito).
Facciamo tanto gli intellettuali sopra le righe e poi smarchettiamo per tre quarti di film? Per cortesia.

Insomma, a conti fatti per me è un NO gigantesco, ma ribadisco, non alzerò le barricate o griderò allo scandalo, sarò contenta solo ed esclusivamente per puro spirito campanilistico, come ho già detto all'inizio del post.

Che sia chiaro, io non sono contraria ad un cinema che dia dei messaggi, che parli di qualcosa, che faccia riflettere, ANZI.
Sono semplicemente stufa di questo cinema che si pone al di sopra di una logica più spiccia, questo cinema che crede che per fare un buon prodotto debba per forza essere astruso ed elitario.
Altrimenti le cose fatele per voi, non per un pubblico ampio, perché altrimenti, per me, siete alla stessa stregua della performer che prende a capocciate il muro perché sente le vibrazioni...

venerdì 7 febbraio 2014

Her [Film]

Eccomi con il primo film visto della lista "Awards Season 2014".

Presentato al Festival del Cinema di Roma, al momento, tra i vari premi ottenuti ci sono il Best Screenplay ai Golden Globes e Migliore Attrice, Scarlett Johansson, proprio al nostro Festival.
Nota: Scarlett è stata considerata "ineligible" (non avente diritto) alle candidature di premi importanti come i Globes o gli Academy perché non è mai apparsa in scena, la mia opinione a riguardo ve la lascio dopo.

Ma parliamo del film (spero di esserne in grado, sono piuttosto arruginita)

Her





Di cosa parla questo film? 
Ne faccio un breve sunto senza raccontare troppi dettagli visto che ancora nei nostri cinema non è uscito.

Theodore Twombly per vivere scrive lettere d'amore. Vive in un futuro non molto lontano in cui la tecnologia ha superato determinati limiti, sta divorziando e si innamora di una voce.

Plot di film in due righe, Chiara a vostro servizio.

Ho apprezzato molto l'uso delle inquadrature, l'alternare i primi piani di Phoenix con campi più lunghi che in un certo senso stanno ad indicare la dispersione dell'individuo tra cemento e tecnologia.

La sceneggiatura è curata e si merita tutti i premi e le nomination.
Sono molto onesta: mi son messa a vedere il film senza aver letto una riga di trama prima, l'unica cosa che sapevo era che Scarlett non si vedeva mai, il perché, però mi era oscuro.
Ebbene, mi è stato tutto chiarissimo.
Non c'è una sbavatura e anche i flashback sono azzeccatissimi.

Una cosa mi ha un po' turbata: i costumi, sarà che io detesto la vita alta e certi colori un po' smorti ma non mi sono piaciuti granché. Probabilmente perché stridevano un po' con l'ambientazione ipermoderna del film.
Ma ad ogni modo, mio personalissimo parere, so che non sono fondamentali nel film ma la mia area di interesse è principalmente questa, dunque non posso fare a meno di esprimere la mia perplessità.


La cosa che mi ha colpita di questo film è indubbiamente la storia.
Il cinema non è molto incline a parlare della nuova tecnologia, nello specifico di computer, sistemi operativi, social network e tutto ciò che ne concerne.
Ok, Sorkin e Fincher hanno fatto un lavoro superbo con The Social Network, ma lì si parla di una storia vera e di una situazione che sì è particolare ma più che affrontare cosa comporta essere, in un certo senso, dipendenti dalla tecnologia (uso questo termine ma so che non è propriamente corretto), parla di come la frustrazione personale di Zuckerberg abbia dato vita a quel mostro di Facebook.
Quel quid che invece ha Her, ancora manca.

Calarsi nei panni di Theodore non è poi così difficile, siamo onesti.
Pensiamoci: non è necessario avere un Sistema Operativo che interagisce concretamente con noi tramite discussioni o addirittura surrogati (come Samantha prova a fare ad un certo punto del film) per esserne dipendenti. In fondo lo siamo già.
A quanti di noi prende un attacco isterico quando salta la linea internet o il 3G dello smartphone non funziona?
La scena in cui Theodore ha una crisi quando l'OS sta facendo l'upgrade e risulta non raggiungibile è di facile immedesimazione.
Mettiamoci poi l'aggravante che il protagonista è un animo gentile e fragile, ancora estremamente legato all'amore della sua vita, Catherine, è dunque naturale che si affezioni in maniera quasi morbosa a Samantha.

Oltre al discorso di questa dipendenza verso gli strumenti high tech, il film sottolinea la solitudine dell'individuo. I rapporti umani ci sono, ma sono fragili, incostanti. Anche se un barlume di speranza pare ci sia ancora. E anche questo aspetto, ahimè, non è poi così lontano dalla realtà.

Nota di fondo per le interpretazioni di Joaquin Phoenix e Scarlett Johansson, davvero strepitosi entrambi.
Ed è un vero peccato che Scarlett sia stata esclusa dai vari premi perché non appare mai in scena.
Interpretare un ruolo del genere, quello di Samantha, dev'essere stato doppiamente difficile.
Tanti awards morali a lei, dunque.


PS: Purtroppo questa recensione, per motivi strettamente personali, è stata scritta "a rate", spero di non aver dimenticato nulla. Perdonate l'approssimazione, è un film che meriterebbe tavole rotonde di discussione!